Io sono come mia nonna Quintilia. Tutti mi dicono che assomiglio a lei, ma io so che le nostre cose in comune vanno oltre l’azzurro dei nostri occhi, oltre il biondo dei nostri capelli.
Nonna Quintilia faceva vino e lo custodiva in vecchie damigiane. Era una donna di Alta Maremma. Lo era nel suo modo testardo di affrontare la durezza di questa terra, quando coltivava la sua vigna. Lo era nel suo modo autentico di portare avanti il lavoro, in un piccolo podere vicino a Caldana, tra le miniere di pirite dove mio nonno Silio scendeva ogni giorno.
Da loro ho imparato il valore della fatica. Da loro e da mio padre, operaio nell’acciaieria di Piombino, che mi portava nel campo dei nonni, nei pomeriggi infiniti della mia infanzia. Io lì, a respirare gli odori della campagna, e lui sempre accanto, a indicarmi la strada, senza bisogno mai di usare una parola.
Sono stata la prima della mia famiglia ad andare all’università. La prima a laurearmi, piena di orgoglio, nello stesso anno in cui, sotto il profilo austero di Roccatederighi, nasceva Ampeleia. Quella laurea costata la fatica di una famiglia intera, doveva essere riscossa subito, adesso. Non si poteva aspettare. Così, in una mattina tersa di dicembre, mio padre mi accompagnò a sostenere un colloquio. Non sapevo nulla del mondo del vino, né di quei forestieri calati dal profondo nord in terra di Maremma. Ma io avevo fame di conoscere, fame di fare mentre, con gli occhi brillanti, stringevo il curriculum dove avevo scritto, con una ingenuità infinita, stato di salute: ottimo.
Scelsero me e io mi tuffai nel lavoro, con la stessa tenacia dei miei avi. Orgogliosa di contribuire al progresso del mio territorio, facendo rete con gli altri produttori, curando le vendite nella Provincia di Grosseto e accogliendo i nostri ospiti.
Amo il mio lavoro, amo essere Ampeleia.